Albert Caraco – Post Mortem, Frammenti di un nichilismo assoluto

Nel palcoscenico letterario del Novecento è difficile trovare in un testo filosofico un livello di pessimismo di tale portata. Un nichilismo come questo, trasportato ad una quota così elevata da dissipare l’ossigeno, è impresa non da poco. A sbriciolare ogni speranza e a dissolvere ogni illusione umana c’è riuscito Albert Caraco  nelle pagine del suo Post mortem.

Tentare di classificare Albert Caraco è lavoro alquanto arduo. La sua è una scrittura disperata, opprimente; una critica dura nei confronti di tutto e di tutti. Egli può essere definito un cantore funesto di una tragicità della vita dilagante.

La disperazione di Caraco, scaraventata nel testo, genera comunque un fascino assoluto. Non sembrano affatto i deliri di un pazzo, ma si ha l’impressione di avere a che fare da subito con un’intelligenza raffinata, capace di meditare prima di concepire concetti e analisi così tenebrose.
Caraco mette subito le cose in chiaro. Non c’è alcuna divinità, non esiste redenzione, non c’è da seguire nessuna via per la salvezza, la fecondità e la procreazione sono mali assoluti, l’amore è un sentimento ignobile, al caos che dilaga non c’è possibilità di porvi rimedio e non vi è neppure un’azione che possa frenare o arginare la negatività e la dissolutezza che cosparge ogni cosa. La storia si estinguerà e con essa anche l’uomo di cui non resterà neppure il ricordo.

Su queste premesse è facile intuire che la strada è segnata fin dalla nascita dell’individuo. Ma lo scenario che il filosofo di origine ebrea delinea è ancora più catastrofico: l’uomo perderà ogni certezza, ogni ideale, ogni principio morale. Darà seguito a quella orrenda trasformazione che lo condurrà all’inevitabile annientamento. In nessun luogo potrà trovare riparo, in nessun altro mondo potrà rigermogliare la vita.

Il contenuto filosofico presente nel testo, seppur con queste premesse poco incoraggianti, è notevole, e benché il concetto di pessimismo vada oltre ogni ragionevole logica e il catastrofismo venga amplificato all’eccesso, la lettura, sebbene destabilizzante, riesce incredibilmente a coinvolgere il lettore.

Due sono le figure centrali della lirica di Caraco presente in Post mortem: la madre e la morte.

La prima ha avuto un’influenza devastante sul figlio. Nel testo il filosofo la chiama Signora Madre, con una riverenza da far rabbrividire. Lei è il centro, il fulcro della sua vita. Arriverà a dire “mia Madre fu l’unico avvenimento di quella che non oso chiamare la mia esistenza”. Essa è l’alfa e l’omega, l’unico oggetto di venerazione, madre divoratrice e al tempo stesso Mater Gloriosa.
La seconda è una presenza costante in tutta la vita del filosofo: la morte. Quest’opera può essere considerata proprio una straziante dichiarazione di morte, un omaggio alla morte in piena regola.
Alcuni hanno definito Post mortem, come il disperato sfogo di un figlio per la perdita della madre. Io credo che si vada ben oltre il canto funebre. All’interno della metaforica castrazione ai danni di Albert, perpetuata dalla madre, s’inerpica un lirismo profondissimo, un dolore abnorme, un amore abortito, uno strazio infinito, una gratitudine delirante.

Pensieri affilati. Concetti infuocati. La sua è un’analisi spietata sul mondo. Il breve tempo della lettura è impiegato anche per interrogarsi sull’autore.
Chi è realmente costui? La domanda balza in mente più volte.
Il libro si legge d’un fiato. Le pagine sono scritte solo nella parte superiore restando bianche nella parte sottostante, come a voler rimarcare l’impossibilità di poter arrivare fino in fondo al foglio che deve restare in parte incompleto. Per tutta la durata della lettura quell’oscura attrazione sembra quasi non separarsi mai dal lettore, neanche per un attimo, e più ci si abbandona alle righe, più la vicinanza di Caraco diventa inquietante. E’ un libro con cui riflettere, specchiarsi ma anche ferirsi.
Il bagliore di questa tragica visione seduce pericolosamente e mentre si condanna la tremenda misantropia di Caraco, che trasuda dalle righe, non ci si rende conto di solidarizzare con lui, perché seppur la sua lama sia terribilmente tagliente e affondi nella carne facendo a brandelli ogni speranza e sia altresì pericoloso avvicinarsi a simili contenuti se non si hanno dei buoni anticorpi, alcuni folgoranti pensieri restano lì, appesi al vuoto e incombono come immensi macigni, sorretti da fragili corde.

Ultima nota finale, ma assolutamente d’obbligo.
Nel rispetto della sua più spietata prosa apocalittica Caraco giurò a se stesso che dopo la morte dei genitori si sarebbe tolto la vita. Dopo la madre, qualche tempo dopo morì anche il padre. Non appena fu reciso anche quell’ultimo e unico legame che lo teneva incatenato al mondo, la sera stessa in cui il padre scomparve si tolse la vita con una lucidità disarmante.
Scrisse nelle sue confessioni: “attendo la morte con impazienza e arrivo ad augurarmi il decesso di mio padre, poiché non oso uccidermi prima che se ne vada. Il suo corpo non sarà ancora freddo quando io non sarò più al mondo”.
Adempì a quell’obbligo con precisione e tempestività impressionante. Del suo decesso non fu fatta parola. La stampa non scrisse neppure una riga.
Mi piace concludere con una frase di Vladimir Dimitrijevic, il suo primo lettore, nonché editore del filosofo francese, riferita ai libri di Caraco: “è come provare disgusto per un bell’albero mentre si sta in beata ammirazione davanti a delle liane sterili.”
Un concetto su cui riflettere.