Dino Campana, il genio di un poeta folle

Se la follia è un modo per comprendere alcune straordinarie esistenze, nel caso di Dino Campana (1885 – 1932) è un elemento imprescindibile, che va analizzato bene e senza il quale non potremmo minimamente avvicinarci alla grandezza di questo poeta. Grandissimo è lo spunto di Eugenio Montale nell’introduzione di Einaudi – Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie – quando accenna al fatto che Dino Campana “si arresta alle soglie di una porta che non s’apre, o talora, s’apre solo per lui”. In questa frase c’è molto del senso della vita e della poesia del grande poeta di Marradi.

La poesia è il genere letterario di un’esperienza conoscitiva, che ha il compito di spingere il poeta alla totale negazione della realtà alienante, portandolo alla continua ricerca di quell’innocenza perduta e incontaminata. Rapportandosi a Baudelaire e a Rimbaud ma per certi versi anche a Nietzsche, Dino Campana sviluppa nella sua poesia una volontà ribelle e distruttiva, che intende scompaginare i meccanismi della classica comunicazione per creare una parola poetica fatta di lampi improvvisi. Il tema chiave della sua lirica è il “viaggio“, potente metafora poetico-esistenziale che conduce il poeta verso terre lontane: terre sognate e desiderate profondamente. Un viaggio quello di Campana fatto di ricerca, desiderio, conoscenza, estasi, liberazione; tutte azioni che tendono a spingere all’estremo l’esistenza per cogliere la parola poetica che si fa divina, proprio perché rivelatrice della realtà più profonda e inconoscibile. È da questo concetto che deriva il titolo della sua raccolta poetica, Canti Orfici, che rimanda al mitico cantore greco Orfeo. Ma c’è anche l’amore nella vita del poeta di Marradi, un amore sempre portato all’estremo e scaraventato nella sua componente folle. La convulsa e travagliata, nonché brevissima relazione amorosa con la poetessa Sibilla Aleramo è un altro elemento che acuisce maggiormente il mito del poeta folle e disperato.

La poesia di Dino Campana occupa un posto a sé nel panorama poetico italiano e rappresenta un risultato del tutto autonomo rispetto alle forme dell’avanguardia. Tuttavia il mito del poeta “folle” e “vagabondo”, nato dopo l’internamento definitivo in manicomio, non è stato d’aiuto per la comprensione della sua poetica.

Ma che forma aveva esattamente la follia di cui era affetto Dino Campana. E soprattutto può essere definita follia a tutti gli effetti?

Sappiamo che egli soffriva di una particolare forma schizofrenica chiamata ebefrenia, una specifica varietà di schizofrenia, propria dell’età giovanile, che degenera rapidamente in demenza.

Il poeta vive per la prima volta l’esperienza del manicomio ad Imola, nel settembre del 1906 (aveva solo ventun’anni) e nella nota informativa rilasciata dai carabinieri che lo accompagnano si legge che “il soggetto è dedito al caffè del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo; la sua è un’esaltazione psichica, è impulsivo e conduce una vita errabonda”. La decisione del primo internamento di Campana viene presa dal padre, che aveva reso davanti al sindaco una dichiarazione giurata nella quale si legge che Dino è matto, ha comportamenti violenti specie nei confronti della madre e deve essere sottoposto a cure psichiatriche. Rimarrà nell’istituto di Imola per due mesi. Tornerà in manicomio diversi anni dopo, al culmine di un periodo travagliato e dificilissimo, all’età di trentatré anni. Stavolta saranno le porte dell’Ospedale psichiatrico di Villa Castelpulci, nei pressi di Scandicci, ad aprirsi. L’anno è il 1918. La diagnosi è impietosa: Dino Campana è incapace di intendere e volere. Qui subisce i primi elettroshock che lo faranno delirare al punto da dichiarare che a seguito dell’influsso delle onde elettriche il suo stato di salute migliora sensibilmente. Muore di setticemia a quarantasette anni. Alcuni dicono che si sia ferito cercando di scavalcare la rete di recinzione del manicomio. Rimangono molti dubbi sulle cause reali del suo decesso.

In Dino Campana l’elemento che colpisce di più è quanto la genialità creativa possa convivere e addirittura fondersi con la follia. In Campana infatti, la geniale follia creativa pare un elemento indivisibile. In questo caso specifico (ma anche in molti altri casi di poeti), follia e genialità non si possono scindere. Il poeta di Marradi era indiscutibilmente geniale nella creatività poetica e decisamente folle nella sua vita psichica e questo connubio ha dato vita a una figura straordinaria nel panorama letterario italiano.

Sono numerose le prove della follia di Campana: come detto, dalle cartelle cliniche, emerge la patologia chiamata ebefrenia, conosciuta anche come demenza precoce, “Dementia Praecox”. Essa presenta svariate bizzarrie comportamentali e stravaganze grottesche, comportamenti deliranti e atteggiamenti nevrotici, stati d’animo confusi, irrequieti e altalenanti. Tuttavia la follia del poeta viene inquadrata solo da un punto di vista patologico, per la quale si sono versati fiumi d’inchiostro. In pochi si sono presi la briga di collocare la suddetta follia in chiave esclusivamente romantica, operazione più complessa e contorta. Il segreto per comprendere questo grandissimo poeta sta anche e soprattutto in questo: introdurre la componente romantica nella sua follia. Osservare il delirio anche da questa prospettiva.
Dino Campana, al netto della follia mentale, intesa quindi quasi esclusivamente in termini patologici, rimane il solo poeta riconducibile alla corrente dei poeti maledetti francesi. L’unico poeta italiano davvero paragonabile a Rimbaud per radicalità, intensità poetica, volontà di elevazione e desiderio di annientamento. In lui il lampo lirico era così forte che non si è potuto conciliare con la quotidianità. Caso affine a Campana può essere quello di Holderlin, altro grandissimo poeta che si è diviso tra genio e follia. Gli esempi si sprecano in campo poetico- letterario, sulla scia della follia e soprattutto su quella del suicidio. Nietzsche muore pazzo. Trakl, Celan, Majakovskj, Cvetaeva, Hart Crane e tanti altri poeti, non riuscendo più a conciliare vita e poesia si suicidano. Rimbaud compie anch’egli un suicidio: si suicida poeticamente a vent’anni, rasentando la follia. Sembrerebbe proprio che gli artisti più “profetici” debbano necessariamente pagare cara la loro vista speciale, il loro sguardo poetico sul mondo, sulla vita, sull’essere umano. Dino Campana è stato uno di questi. Ha pagato a caro prezzo la sua genialità.

I Canti Orfici sono senza ombra di dubbio un capolavoro poetico, figlio di una mente geniale e folle in egual misura, ma come detto, in questo caso le due parti si fondono, diventano indistricabili. Senza follia non vi è genio e senza genio non c’è follia. Campana porta entrambe le componenti al limite. Solo così per lui si può ottenere il più alto livello di lirismo. Il poeta che non attinge a piene mani dalla follia non può mai comporre nulla di poetico. Dalla follia Dino Campana ha estratto una poetica sublime, eccelsa, profondissima.

Per chi volesse andare oltre gli scritti del poeta ed entrare dentro i meandri della sua incredibile esistenza consigliamo il bellissimo romanzo La notte della chimera di Sebastiano Vassalli: si tratta della migliore biografia romanzata su Dino Campana che si stata scritta.