Gesualdo Bufalino. L’incanto linguistico di Diceria dell’untore

È innanzitutto una sfida per il lettore, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino. Accettata la sfida e superato lo stordimento iniziale si spalancano pagine e pagine di grandissima letteratura. La Diceria è un audace costruzione imbevuta di autentico lirismo, un ginepraio sintattico di notevolissima fattezza, una voragine lessicale lontana dal sentimento di terrore che incutono gli strapiombi, perché la prosa qui non terrorizza, ma conduce verso porti sicuri, si forgia riga dopo riga di una robustezza disarmante.

Questo e altro è Diceria dell’untore, libro più importante insieme a Le menzogne della notte, di Bufalino. Esordio tardivo il suo, nel panorama letterario italiano, a sessant’anni compiuti, ma grandissima e immediata affermazione. Nell’anno in cui Diceria dell’untore fu stampata, il 1981, ottenne un consenso unanime di critica e di pubblico; nello stesso anno vinse il Premio Super Campiello e arrivò alla cinquina finale dello Strega.

“Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull’aia, lungo profumi d’arance e paesi, in una notte d’estate? Niente, eppure so di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra vacanza se non di sorprendere, al seguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via”.

 Sulla squisitezza linguistica di questo testo si è detto tanto. Aggiungo io che si tratta davvero di un grande omaggio all’italiano. Qui si può interamente apprezzare la ricchezza e la grandezza della lingua italiana, usata dallo scrittore siciliano in tutte le sue varianti, in tutte le sue forme e aspetti. Una maestria non da poco la sua: non solo scovare, con inaudita ricercatezza, parole desuete, perse oramai, rigenerarle e riportarle in auge, ma soprattutto costruirci con poeticità e rancore una frase, un periodo, un’intera pagina. Opera da veri artisti del linguaggio. Diceria dell’untore è una melodia suadente. Un giro di accordi in pompa magna. Una ballata per la morte. Un dolce desolato richiamo.

..”Poi il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo”..

E non è, come erroneamente potrebbe apparire, un’ostentazione erudita quella di Bufalino, bensì un vero e proprio dono linguistico da scartare e ammirare con grande piacere. Ad un Leonardo Sciascia sbalordito dichiarò di avere scelto preliminarmente una cinquantina di vocaboli seducenti per timbro, tono, musicalità e di avervi poi tramato sopra il primo capitolo. Trent’anni di stesura, revisione e correzioni. Tanto è costato allo scrittore di Comiso, Diceria dell’untore. Il risultato, neanche a dirlo, è che non c’è neppure una virgola fuori posto. E’ perfetto da ogni punto di vista. Colui che padroneggia la lingua in questo modo non può che scrivere capolavori.

Il primo capitolo è l’antipasto, di quello che in seguito si potrà ammirare. I capitoli XI, XII e XVII sono magnifici, ma tutti quanti offrono al loro interno un intrigo di frasi superlative, di malinconica rassegnazione, di dolorosa rinuncia e tante memorie perdute accanto a infinite attese.

Cos’è dunque questa “diceria”? Ebbene si tratta di un monologo da parte del protagonista, un untore, che racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi nel sanatorio di Conca d’oro, nei pressi di Palermo. Qui conosce altri malati e s’innamora di Marta. Dalla penna di Bufalino prende vita l’amore impossibile, intessuto abilmente tra l’alternarsi di comparse e personaggi, (il Gran Magro su tutti) magistralmente proposti. L’amore, come accennato, ha vita breve, destinato a soccombere. E tutti cadono, consumati dal male: uomini, sentimenti, sogni, desideri.

Tresca d’amore e di morte”, la definì lo stesso Bufalino. C’è la morte, dunque, protagonista assoluta che permea ogni pagina, centro attorno al quale tutto ruota, e c’è quest’amore innocente, fanciullesco, condannato a perire già in partenza. L’untore, prossimo alla morte, guarisce inaspettatamente, ma non saprà servirsi di quest’esperienza di apprendistato alla morte, non saprà che farsene. Mestamente confesserà: “il male si scorporava da me, se ne andava. Ma con esso ogni resto d’orgoglio; con esso, forse, la gioventù”.

Ancora Bufalino definisce quest’esperienza di vita e di morte un “noviziato indimenticabile nel regno delle ombre”.  E’ una trama che si può abbozzare in poche parole, ma al contempo ci vorrebbero tantissime pagine per descrivere l’incredibile potenza interna del materiale esposto. E’ un romanzo che disorienta le menti di individui che tutto hanno provato: fascismo, guerra e resistenza e ora attendono la morte e si scontrano debolmente tra le mura del sanatorio.

Fin troppo scontato il paragone con La montagna incantata di Thomas Mann. C’è una corrispondenza sebbene le storie si muovano su diversi registri e anche se Bufalino escluse nel modo più totale una derivazione tra la Montagna e la Diceria, chi ha letto Mann ci vedrà, seppur alla lontana, un certo richiamo.

L’ubriachezza che ne deriva dalla lettura di Diceria dell’untore è di quelle che non lascia tracce, perché inebriarsi di ottimo vino non consegna, al risveglio, traumi dolenti. Ci sono infine certi passaggi autobiografici evidenti soprattutto nel male che colpì lo stesso Bufalino dopo la guerra, ma l’autobiografia, si sa, è forse l’unica storia davvero “possibile” perché è quella che parla realmente di sé.

Bufalino, maestro indiscusso, genera lo scontro apparente tra lirismo e desolazione offrendo un testo che lascerà strascichi seri e che ne raccomanderà ulteriori rivisitazioni. Ma più che scontro, alla fine, è l’intreccio straordinario che emerge, tra questo lirismo che in un abbraccio mortale eleva e rigenera anche una tematica così cupa e dolorosa, formando un magnifico tutt’uno.

… “una luce senza vigore, gocciolando dal cartoccio di giornale avvolto attorno alla lampada, ci si smagliava addosso in matasse e garbugli tremanti, con effetti di lanterna magica che bastava la mia mano a turbare”.