Hart Crane, il “ponte” tra il poeta e l’infinito

I destini di alcuni poeti, soprattutto di quelli visionari, sono talvolta atroci: una vita breve, spesso brevissima segnata dal genio ma anche dalla tragedia. Per il poeta de Il ponte, Hart Crane, non è stato facile dominare la tempesta che aveva dentro. La sua breve esistenza tuttavia non teme il paragone con altre vite di poeti e scrittori consumate negli anni.

Hart Crane è stato un grande poeta, proprio uno di quelli dalla vita breve, impegnato a confondere le proprie tracce fin dall’adolescenza, in quei primi decenni del Novecento, dove negli Stati Uniti si correva già veloci.

Sul solco della drammaticità lirica di Whitman e con un impeto visionario tipico del miglior Shelley, la sua prosa intensa, coinvolgente e intima non è passata inosservata. Il poeta dell’Ohio si presenta alla critica e al mondo con un pregevole componimento dal titolo Bianchi edifici. E’ stato questo il primo assaggio del suo grandioso talento.

Una cosa va detta. E va detta subito. A Hart Crane la vita stava decisamente stretta. Niente di nuovo fin qui. E’ tipico del poeta percepire una sofferenza immane e non riuscire quasi a stare dentro il proprio corpo: c’è voglia d’infinito, di vastità. Hart Crane sembra esigere e pretendere da se stesso solo questo perenne slancio verso l’infinito che spesso conduce a lampi di pura genialità.

In un momento di grande ispirazione fu proprio lui a coniare il termine cognizance, ripreso da Giacomo Trapani nella prefazione de Il ponte:il raggiungimento di una forma altissima di concezione del mondo, dell’universo e dell’uomo stesso attraverso uno sforzo eroico di tensione verso l’alto, verso l’infinito”.

Per i poeti, nobili e indifesi, spesso il confronto con la vita è tragico.

Il 27 aprile del 1932, poco prima di mezzogiorno Hart Crane decise che era giunto il momento di congedarsi da questo mondo e si gettò dal piroscafo Orizaba, che solcava il mare del Golfo del Messico in direzione degli Stati Uniti. Aveva 33 anni. Alcuni giurarono di aver sentito cadere dalle sue labbra un tiepido commiato: “Addio a tutti quanti”, perché una passione come quella provata da Hart, parafrasando proprio Shelley, “non si poteva certo dividere” e doveva soccombere insieme al suo corpo.

Al termine di quella sua ultima notte tempestosa, quando il proposito del suicidio si era ben incanalato sul sentiero della realizzazione,  alla sua mente sicuramente sono tornate tutte le immagini di una vita. Il divorzio dei genitori mai accettato e lo scontro continuo col padre, il vagabondaggio ininterrotto alla ricerca di lavori con i quali sostenersi, e ancora la sua omosessualità mai nascosta (e per questo mai accettata nella moralista New York degli anni Venti del secolo scorso), le notti di sesso e folgorazioni con navigatori ubriachi, la poesia sentita fin nel midollo e perseguita per tutta la vita, l’amore tragico per il giovane marinaio Emil Opffer, il legame turbolento con la quasi coetanea Peggy Cowley, i viaggi, l’ispirazione e il progetto poetico di comporre un’opera memorabile.

Il desiderio di voler lasciar qualcosa ma di non voler essere ricordato.

A Mauro Pagliai Editore va il merito di aver riproposto Il Ponte e La torre spezzata nell’edizione del 2013, con testo inglese a fronte. Grazie alla pregevole traduzione possiamo apprezzare tutta la grandezza poetica di Hart Crane, il dramma della sua esistenza, il desiderio sconfinato d’amore, il significato del dolore e la ricerca spasmodica della vera spiritualità.

La lingua di Hart Crane è una lingua difficile. E’ ricca di termini ricercati con riferimenti complicati e contorti. Accostarsi a lui non è sempre facile; richiede impegno, concentrazione.

C’è un Hart Crane che infonde alla parola una grande densità di significati, dove la ritmica forse ne risente, ma il linguaggio ne trae giovamento; un linguaggio estremo, quasi intraducibile.

E poi ci s’imbatte con un diverso, ma non per questo meno affascinante Crane. Quello che predomina nel suo capolavoro: Il ponte. Qui i versi sono limpidi, eroici, copiosi. E’ un grandioso inno simbolistico.

Infine l’ultimo Crane, quello che abbraccia il mito, la prosa avvolgente imbevuta di eternità in una sorta di apocalisse rovesciata.

 

Qualunque sia lo stile che s’incontra, il dono lirico di Hart Crane non è decifrabile e leggibile se non includendolo totalmente all’interno della sua persona. Impossibile attraversare i sublimi passaggi poetici presenti ne Il ponte o ne La torre spezzata, senza immergersi interamente nella profondità della sua anima, nella speranza, nel desiderio infinito d’amore; un grido e una richiesta costante.

Il suo corpo non fu mai trovato, sprofondato negli abissi e disgregato per sempre.

Egli condivide lo stesso destino di alti straordinari poeti suicidi, a cui la vita era troppo stretta: Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Vladimir Majakovskij, Paul Celan, Stefan Zweig, per citarne alcuni. Ognuno col suo fardello, con la sua visione della vita e della morte, con la sua folgorante poeticità.

Hart Crane ci lascia squarci di poesia a tratti eccelsi, come fugaci esplosioni di sole in giornate tetre, sicuri che ci si può scaldare anche così.