Jean-Paul Sartre, La Nausea. Un filosofico flusso esistenziale

La nausea, scritta da Jean-Paul Sartre (1905-1980) nel 1932 e pubblicato per la prima volta sei anni più tardi, dopo diverse revisioni, può essere definito a buon titolo uno dei più grandi capolavori dell’esistenzialismo, variegata e disomogenea corrente filosofica che racchiude illustrissimi pensatori tra cui Nietzsche, Kierkegaard, Schopenhauer e Camus.

Sartre con questa grandissima opera mette in evidenza quelli che sono i tratti distintivi di questa importante corrente filosofica nata tra il XVIII e il XIX secolo, le cui ripercussioni sono giunte fino al XX secolo. La tematica principale di tutto l’esistenzialismo è quella che sottolinea il valore peculiare dell’individuo mettendo l’accento sul carattere precario e finito dell’esistenza, nella cui insensatezza e assurdità è totalmente immersa la condizione dell’uomo moderno: una condizione infine di profonda solitudine.

La nausea può essere definito un diario filosofico, attraverso il quale Sartre elabora una sorta di analisi dettagliata sulla coscienza umana e sulle relazioni che intercorrono tra l’uomo e la sua esistenza.

L’uomo è solo. Non c’è possibilità di sfuggire a questa condizione. Questo è l’unico presupposto dal quale esso non può né sottrarsi né sfuggire. È solo il protagonista, Antoine Roquentin, e sono soli tutti gli altri, ognuno rinchiuso nella sua solitudine. Prendere atto di questo è già di per sé un prendere atto della vita.

“Queste solitudini tragiche non possono più darmi nulla se non un po’ di purezza a vuoto”.

Il testo, per via della sua affascinante complessità interna, non offre una trama precisa e Sartre danza magistralmente sulle righe con una padronanza di linguaggio straordinaria.

Antoine è un giovane di trent’anni che si stabilisce in una cittadina di provincia, Bouville, nel nord della Francia, con l’obiettivo di completare una ricerca storiografica su un libertino vissuto nel Settecento: il marchese di Rollebon. Dopo tre anni di permanenza a Bouville comincia a scrivere un diario personale. Soggiorna in un albergo vicino alla stazione ferroviaria. Le sue giornate si alternano tra  il ritrovo dei ferrovieri e la biblioteca municipale, dove incontra l’Autodidatta, personaggio molto eccentrico che trascorre il tempo a leggere tutti i libri posseduti dalla biblioteca in ordine alfabetico.

 

Riflessione filosofica, flusso di coscienza e la potenza del ricordo

Le riflessioni filosofiche che Antoine mette in fila nei tratti “ascendenti” del diario sono davvero notevoli, per profondità e spessore. Si perdono tra le righe che offrono una giusta alternanza tra la banalità del quotidiano, un’insignificanza di giorni quasi tutti identici, inconsistenti e impalpabili, e delle intuizioni meditative degne di nota perché segnano soprattutto la scoperta della vanità dell’esistenza.

Queste considerazioni filosofiche dell’io narrante Antoine si plasmano nell’espressione linguistica del flusso di coscienza, tecnica narrativa che consiste nella libera rappresentazione dei pensieri così come compaiono nella mente, senza nessuna organizzazione logica. In questa tecnica Sartre è un maestro e quest’opera è una pietra miliare all’interno del genere letterario che utilizza la tecnica del flusso di coscienza.

Narrazione e riflessione. La tematica narrativa lascia il passo a quella riflessiva e viceversa. Quando Antoine riflette sulla sua esistenza le pagine che seguono sono di una purezza filosofica sbalorditiva. C’è il ricordo, una sorta di sublime richiamo alla memoria di matrice proustiana, unita al sapore della concezione della reminiscenza di stampo platonico: l’anamnesis. E infine riecheggia inevitabilmente Cartesio e il cogito rifiutato, allontanato, respinto. In questo connubio Sartre macina frasi incantevoli, spendibili non solo filosoficamente ma anche in chiave psicologica. Il passo che segue è una straordinaria vetta riflessiva del protagonista, elaborata proprio sul concetto del ricordo:

Per cento storie morte restano però una o due storie vive. Queste le evoco con precauzione, qualche volta, non troppo spesso, per timore di consumarle[…] Indovino che questa parola finirà ben presto per prendere il posto di molte immagini che amo. Allora mi fermo di colpo, i metto subito a pensare ad altro; non voglio stancare i miei ricordi. Invano: la prossima volta che li evocherò una buona parte di essi sarà congelata.

 

Nausea ed Esistenza

Tra i pezzi della vita si erge imperterrita La nausea, che non è certo una semplice sensazione momentanea di malessere e neppure è riducibile a un senso di disgusto o di repulsione transitoria. È piuttosto un’inquietudine costante, il perenne turbamento che si impadronisce dell’esistenza, l’avvolge interamente divenendone l’unico tratto distintivo.

La Nausea è un’esperienza estrema, profondissima, e in quanto esperienza autentica è la sola capace di condurre alla radicalità dell’essere umano, alla solitudine purissima, entro la quale si mette in discussione tutto quanto, arrivando infine alla tematizzazione del significato e dell’utilità dell’unica scelta reale che resta da compiere: cacciare l’esistenza che è dentro di sé. Lo dice Sartre nelle stupende battute conclusive, “nel fondo di tutti questi tentativi che sembrano slegati, ritrovo lo stesso desiderio: cacciare l‘esistenza fuori di me”, per giungere poi a un passo straordinario dove “dietro l’esistente che cade da un presente all’altro, senza passato, senza avvenire, dietro questi suoni che di giorno in giorno si decompongono, si squamano e scivolano verso la morte, la melodia resta la stessa”.

Quella melodia, rappresentata dalle “quattro note di sassofono” che si perdono in attesa di un treno che “parte tra due ore” sono l’emblema stesso della vita, abbandonata in un sottofondo, costretta a riproporre echi e note che si perdono docilmente. E che dire dell’Esistenza, di tutte queste Esistenze. Eccola che “penetra da tutte le parti”, “radice impastata nell’esistenza”, “tentare di sopprimere almeno una di queste esistenze superflue”. E ancora “tonnellate di esistenza”, “esistenze mancate” fino alla presa di coscienza che “ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”.

Neanche il suicidio offre una possibile soluzione. Antoine ci pensa a lungo ma conclude che “ciò che mi ha trattenuto è stata l’idea che nessuno, assolutamente nessuno si sarebbe commosso alla mia morte, che in morte sarei stato ancora più solo che in vita”.

Dirà Antoine “anche io ho voluto essere. Non ho voluto che questo”, perché esistere significa anche convivere con l’immensità che si cela dietro il non esistere, mettersi di traverso, confrontarsi con l’abisso, osservando quell’io che lentamente si dimentica di se stesso, un io che “sembra una cosa vuota”, un ricordo nella coscienza, sempre più labile, indefinito, un barlume che prima o poi si spegne.