Immanuel Kant e “La fine di tutte le cose”

Quando il filosofo e sociologo austriaco Jacob Taubes, affermò che l’opera più ingiustamente trascurata dell’ultima produzione kantiana fu “La fine di tutte le cose”, disse una cosa vera. Immanuel Kant, il grande filosofo di Königsberg è famoso in tutto il mondo per altri scritti, come La critica della ragion pura, La critica della ragion pratica e La critica del giudizio, pietre miliari dell’intera storia della filosofia, ma leggere La fine di tutte le cose, che gli studiosi collocano in quella che viene definita la fase critica del pensiero kantiano, è un atto dovuto e di straordinaria utilità.

L’editore Johann Erich Biester definì La fine di tutte le cose un’opera breve ma di “rara trasparenza stilistica e di notevole efficacia espositiva”.

Nei diversi significati che si possono attribuire all’idea della fine, Kant mette in evidenza il confronto che c’è tra la nozione concreta del tempo e la sua concezione storica, che racchiude come evidenzia Andrea Tagliapietra nella postfazione, in un unico disegno “l’incipit del Genesi e l’epilogo dell’Apocalisse”.

L’avvio del testo è straordinario: “dire che un individuo in punto di morte starebbe per passare dal tempo all’eternità equivale a dire una cosa senza senso, se per eternità si dovesse intendere un tempo che si protrae all’infinito. A quel punto l’uomo non uscirebbe mai dal tempo ma si troverebbe semplicemente a passare da un tempo all’altro”.

Uno dei pregi di Kant, ne La fine di tutte le cose, è quello per esempio di ricondurre l’Apocalisse a una dimensione di regno morale che la ragione è in grado di riconoscere e analizzare. Solo a quel punto si attribuisce al famoso passo del Vangelo di Luca (17, 21-22) “il Regno di Dio è dentro di voi”, un significato puramente intellettuale.

Il grande filosofo tedesco pone quasi immediatamente due grossi interrogativi.

– Perché gli uomini in generale si aspettano una fine del mondo? E quand’anche si conceda loro questo, perché una fine accompagnata dal terrore?

Per quando concerne il primo quesito, Kant spiega che l’origine di tale interrogativo nasce dal fatto  che alcuni esseri razionali, per loro indole, ricercano uno scopo finale alla propria esistenza e se non si riuscisse a raggiungere questo scopo finale, allora la creazione stessa diverrebbe per tutti questi individui senza scopo.

La seconda domanda presuppone che corruzione e malvagità rappresentino due delle caratteristiche prevalenti del genere umano e che l’unico criterio utilizzabile dalla giustizia divina per eliminarle definitivamente, sia quello di porre fine al genere umano in maniera tremenda e terrificante e proprio per questo i segni che annunciano il Giorno del Giudizio sono tutti di natura spaventosa.

Gli uomini scorgono questi segni in maniera distinta. Kant afferma che i progressi del genere umano non vanno di pari passo con lo sviluppo della moralità e aggiunge che le idee concernenti la fine di tutte le cose “sono idee che la ragione dell’uomo produce, i cui oggetti trascendono del tutto l’orizzonte di ciò che possiamo vedere”.

In conclusione è doveroso accennare un altro concetto chiave che è impossibile non citare.

Kant, abilmente, ridefinisce il concetto di tempo presente nel verso 10,5-6 dell’Apocalisse […] “che non vi sarà più il tempo”.

Egli traduce il termine tempo con mutamento. Non vi sarà più alcun mutamento.

Se nel mondo continuasse a mutare qualcosa significherebbe che il tempo c’è ancora e può esserci un mutamento solo nel tempo. Pertanto può essere rappresentata una fine di tutte le cose solo come oggetto dei sensi di cui l’uomo però non riesce neppure a formarsi un concetto.

Il fatto che un giorno debba cessare ogni mutamento è un concetto che disgusta l’immaginazione. E’ impossibile infatti pensare ad una pietrificazione istantanea della natura nella sua interezza e Kant in modo assolutamente geniale afferma che “l’ultimo pensiero e l’ultimo sentimento rimarrebbero sospesi, sempre uguali nel soggetto pensante e per un essere che può acquisire coscienza della propria esistenza solo nel tempo, una simile vita apparirà come un annientamento”. Aggiungo io, sulla scia di questo magnifico concetto della sospensione del pensiero, che un simile momento di arresto temporale sarebbe del tuto irreale e inimmaginabile per l’uomo.

Il genio del filosofo di Königsberg in questo piccolo testo si manifesta in tutta la sua grandezza. Nella critica della ragion pura il concetto del tempo verrà ulteriormente approfondito e analizzato in maniera sistematica. La fine di tutte le cose è un bellissimo testo propedeutico alla lettura dei grandi capolavori di Kant.

L’uomo, come afferma il critico letterario britannico Frank Kermode, ne Il senso della fine, per dare un senso alla sua brevissima vita ha bisogno di creare un’armonia tra l’inizio e la fine, non rendendosi conto che cercare un’armonia tra inizio e fine vuole dire dare un significato alla vita e alla poesia, perché a tutti gli uomini accade di nascere e morire “nel mezzo”.

Al termine della lettura de La fine di tutte le cose si ha la piacevole sensazione di aver appreso qualcosa d’importante ma rimane anche il grande vuoto che s’innesca nel pensiero quando si tenta di comprendere come potrebbe mai avvenire questo passaggio da un tempo all’altro. Infatti non può che generare un autentico e incolmabile vuoto accostarsi all’idea della fine di tutte le cose. Una cosa tuttavia ci gratifica: pensare alla fine del tempo è una totale assenza di pensiero, perché finché pensa il pensiero non può che pensare temporalmente, per cui la fine apocalittica non è quella tra il presente e il futuro ma tra il presente e il presente, tra quello che è già e quello che non è ancora, ma che sarà subito dopo.