Samuel Beckett – Aspettando Godot. Il tempo e l’attesa nel teatro dell’assurdo.

Aspettando Godot di Samuel Beckett (1906 – 1989) è forse il testo principale di quel genere che tra gli anni ’40 e ’60 del secolo scorso prese il nome di “teatro dell’assurdo”. In estrema sintesi, il teatro dell’assurdo consiste in una rappresentazione artistica che ruota attorno al concetto filosofico di esistenza e della sua assurdità. Di quest’opera teatrale si è detto e scritto tanto, ma forse non abbastanza e di sicuro mai si smetterà di parlarne. Aspettando Godot è un’opera che si colloca tra l’assurdo, appunto, e lo straordinario, abilmente costruita intorno ad una condizione comune e ricorrente nell’uomo: quella dell’attesa. Sappiamo che il concetto di attesa rimanda inevitabilmente a quello di tempo. Attendere qualcosa o qualcuno presuppone che debba decorre un determinato periodo di tempo affinché la “cosa” o la “persona” che si sta attendendo finalmente si manifesti. Ergo il tempo scandisce l’attesa. Qualunque attesa.

Beckett ci propone un’opera che affronta, in maniera sfrontata, la potentissima reminiscenza platonica sulla concezione del tempo. Il tempo qui è legato ad un’assoluta ciclicità, disseminata nel testo. Sarà un albero l’unico elemento a consentire al lettore di cogliere lo scorrere del tempo. Ma si tratta di un tempo quasi immobile, per certi versi eterno ed immutato. Un tempo che non esiste o che se esiste può essere solo sconfinato, perché è questa la forma  più vicina alla ciclicità. Ma come mai il tempo in Aspettando Godot è così importante? Perché esso è strettamente legato all’altro concetto chiave presente nel testo di cui abbiamo già accennato: l’attesa.

Il testo è tutto un ingannare vanamente il tempo. Tempo di attesa di un evento, mentre si dipanano i pensieri, i dolori, le angosce, le speranze e le paure, mentre si palesa maestosa la monotonia e si fa strada la stanchezza, il peso insopportabile della vita. In quest’attesa perfino la consapevolezza dell’imperscrutabilità della propria esistenza e dell’inconsistenza e superficialità della morte sembrano rimpicciolirsi. Morte che può essere messa in atto in qualunque momento, perché dopotutto il suicidio è un gesto come un altro.

Ci suicidiamo oggi o domani?” Si chiedono il due protagonisti, Vladimiro ed Estragone. E ancora, in un altro passaggio narrativo: “E se ci impaccassimo?” E il dialogo grottesco che ne consegue e che paventa questa assurda presa di coscienza sul suicido è davvero un pezzo di bravura di Beckett. A questa e ad altre domande e intenti seguirà un immobilismo angosciante, una via di mezzo tra la farsa e la tragedia, dove si ricrea e si ripresenta ciclicamente sempre lo stesso contesto. In questo indugiare inconcludente, sotto i morsi delle intemperie e della noia, trovano spazio personaggi altrettanto strampalati come Lucky e Pozzo, messaggeri inviati da Godot, come il ragazzo, che ne assicurano un imminente quanto improbabile arrivo, citazioni evangeliche, battute quasi blasfeme, scatti d’ira e improbabili riappacificazioni, dialoghi al limite dell’inverosimile.

Il concetto della dimenticanza inoltre è introdotto da Beckett con grande maestria. Nessuno sembra ricordare quello che è successo il giorno prima. Infatti dirà Pozzo: “non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi”. Solo Vladimiro sembra essere immune dalla sospensione del ricordo. Memorabile altresì la cecità di Pozzo, nella parte finale del testo. La scena in cui si svolge la (non) azione è sempre la stessa. Il luogo è sempre identico: una panchina e accanto un albero. Sembra di sentirsi calati in uno spaccato sicuramente irreale ma allo stesso incredibilmente plausibile.

– Che facciamo adesso?

– Aspettiamo Godot.

– Già, è vero.

A questo punto la vera domanda che sorge, quando ci si avvia agevolmente verso la conclusione dell’opera, è la seguente: chi è Godot? Chi è il soggetto che i due disgraziati attendono da così tanto tempo? È un benefattore, un criminale? È forse Dio? La fortuna? La felicità?

Ebbene la meravigliosa simbologia sottesa nell’opera teatrale di Beckett è destinata, per la delusione di tutti coloro che leggono il testo o assistono alla rappresentazione teatrale, a restare inespressa. E non è un caso che sia così. Ogni lettore e spettatore può introdurre in questo modo, con le dovute cautele, la propria personale interpretazione. In Aspettando Godot, tuttavia, come in altri suoi testi, Beckett esprime il suo più radicale nichilismo verso l’esistenza umana. I protagonisti delle sue opere, come ogni uomo del resto, sono isolati da tutti gli altri esseri umani. C’è una regola che vige e che non viene mai meno: non si può e non si riesce a comunicare, per nessuna ragione al mondo.

Beckett, da grande maestro qual è, in pochi minuti avrebbe potuto risolvere il problema e rispondere alla domanda sull’identità di Godot. Ma egli, subito dopo l’enorme ed immediato successo dell’opera, affermò nel 1952, in occasione di un’intervista, la seguente dichiarazione:

“Non ne so di più di quest’opera di colui che la legge con attenzione. Ne so in quale spirito l’ho scritta. Non so nulla dei personaggi se non ciò che dicono, ciò che fanno e ciò che succede loro. […]Non so chi sia Godot e non so neanche, soprattutto, se Godot esiste. E non so se ci credono o meno, i due che lo aspettano”.

 

Una possibile interpretazione

La grandezza di Samuel Beckett è anche questa. Scrivere un’opera magistrale e liquidare così la questione, scatenando l’inventiva e la fantasia di un pubblico sempre crescente.

Così in molti hanno voluto vedere in Godot un simbolo: il Dio non-Dio [God God-(n)ot], altri il destino, alcuni la morte, altri ancora la buona sorte. L’autore irlandese forse non sapeva davvero chi fosse Godot ma c’è da credergli quando afferma che se lo avesse saputo, sicuramente lo avrebbe scritto nel copione? A pensarci bene la grandiosità e la fortuna di Aspettando Godot sta proprio nella sua magnifica astrattezza, il che non vuol dire che ognuno di noi è libero di vedere in Godot quello che meglio crede, ma che l’attesa di Vladimiro ed Estragone è la sintesi e la madre di tutte le attese possibili.

Siamo proprio sicuri che al termine delle nostre, talvolta inutili attese, si manifesti per davvero la cosa o la persona che tanto attendiamo? Oppure la nostra vita riesce ad avere un senso proprio perché si erige e si forgia nell’attesa? Come se il concetto del senso della vita, (la domanda filosofica per eccellenza) non si possa scindere da quello dell’attesa. È un bene o un male ridurre la propria esistenza ad una perenne attesa? Attesa di cosa poi? Io non so se sia un bene o un male incanalare la propria vita in quella direzione e come Beckett, non sono neppure così sicuro se davvero l’oggetto/soggetto di questa attesa alla fine sia così importante. Certamente può esserlo l’attesa, in quanto azione, se diventa l’unica condizione esistenziale, anche se questa attesa si protrae all’infinito, oltre le nostre stesse vite, anche se sembra inutile, assurda, anche se ci sovrasta e questo libro è dedicato, indistintamente, a tutti coloro che hanno, consapevolmente o no, deciso di attendere.

 

– E desso che facciamo?

– Non lo so.

– Andiamocene.

– Non si può.

– Perché?

– Aspettiamo Godot.

– Già, è vero.