William Faulkner – Mentre morivo. Fascino e inquitudine del molteplice flusso di coscienza

 

Mentre morivo di William Faulkner (1897 – 1962), premio Nobel per la letteratura nel 1949, è un’opera affascinante e complessa, un testo sconcertante, grottesco, perfino dissacrante nel suo coro polifonico di voci, fatto di oltre cinquanta monologhi che a turno i componenti della famiglia della defunta Addie Budren, esternano, in un concentrato di grandiosa solitudine.

Si dice che Faulkner scrisse Mentre morivo in poco più di sei settimane, nel 1930, mentre faceva l’operaio, scaricando carriole di carbone dentro una caldaia. Durante le pause dal lavoro trovava il tempo per scrivere e così, nel ritaglio di svariate notti insonni, nasce questo incredibile romanzo.

Mentre morivo, come detto, è un romanzo complesso, talmente complesso che per i primi, seppur brevi capitoli, si ha l’impressione di non aver ancora compreso niente della vicenda e si sente la necessità di tornare sulle pagine appena lette per imprimersi un ritmo, trovare un appiglio convincente all’interno della storia e mettere qualche punto fermo, visto che l’incedere della narrazione accresce ancora di più la complessità della vicenda.

Addie Budren è sul letto di morte. La sua vita è ormai al termine. La sua famiglia è composta dal marito Anse e da cinque figli: Cash, Jewel, Darl, Vardaman e Dewey Dell, l’unica femmina.

Uno dei figli, Cash, in giardino sta costruendo la cassa in cui la mamma verrà seppellita. Lo fa sotto gli occhi della moribonda che può osservare il suo lavoro dalla finestra e approvarne in silenzio l’operato. L’unica richiesta di Addie è che venga seppellita a Jefferson, il suo paese di origine. Sarà un viaggio quasi epico quello che condurrà la famiglia a Jefferson, con la cassa che contiene la defunta, sopra un carro trainato dai muli e scortato dai figli e dal marito.

“Ecco che cosa intendono con il grembo del tempo: il tormento e la sofferenza delle ossa che si aprono, la dura cintura entro cui giacciono le viscere degli eventi”

Penetrare il significato del messaggio di Mentre morivo è impresa davvero ardua. Si cade sovente nel vortice del non senso, come se i personaggi facciano a gara per esternare una crescente incomprensione nei confronti della vita e una costante inadeguatezza comunicativa. I vari monologhi che costituiscono i tanti capitoli del libro sono una voce che limita tantissimo la percezione della realtà circostante che ognuno senta a modo suo.

Ogni personaggio vede il mondo con i propri occhi, ha un tono differente per raccontarlo, pensa e si esprime col suo proprio linguaggio e questo comporta inevitabilmente continui cambi di registro. Qui Faulkner si isola talmente tanto che riesce far sentire solo la voce dei suoi personaggi. Ogni capitolo del libro è un monologo, a volte brevissimo, in cui a rotazione i vari protagonisti rievocano un ricordo o si limitano semplicemente ad una descrizione di quello che osservano in quel dato momento. In totale abbiamo oltre cinquanta capitoli dove emerge tutto il repertorio simbolico di Faulkner.

C’è un capitolo però dove la penna di Faulkner si fa più soave: Addie. Anche lei parla, finalmente.

Questo soliloquio è poesia pura, che si eleva e sovrasta tutti gli altri. A mio avviso è la vetta di questo romanzo. Qui la genialità di una grande prosa si intreccia con la poesia dando vita ad un pensiero magari contorto, a tratti sfuggente, ma straordinariamente profondo. Ecco come da una semplice frase si dipana un mondo:

“Io ero io; lui, lo lasciavo essere la forma e l’eco della sua parola”

 

I diversi flussi di coscienza

Si è parlato a tal proposito di un romanzo da catalogare in quelli che affrontano il flusso di coscienza. In effetti Mentre morivo può essere fatto rientrare nel genere di narrazione del flusso di coscienza. Tuttavia presenta una struttura decisamente originale perché ad alimentare questo flusso in maniera differente e con toni più o meno marcati, non sono i pensieri di un unico personaggio, come per esempio abbiamo ne La nausea di Jean-Paul Sartre,  ma i pensieri generati dai soliloqui di diversi personaggi. Abbiamo quindi un flusso di coscienza alimentato da diversi flussi di coscienza. Un lavoro complesso da mettere in piedi che soltanto una grande penna come quella di Faulkner riesce a non far deragliare dai suoi binari.

Il lettore non trova vita facile anche per questo. Perché si è costretti a seguire un tono altalenante di pensieri diversificati ed esternati talvolta anche in modo non del tutto semplice da comprendere. I dettagli sono pochi. Il filo logico della narrazione è continuamente interrotto.

Immagini, suoni, dialoghi, pensieri, impressioni, descrizioni, luoghi, si alternano costantemente rendendo la narrazione molto variegata. Di pari passo alla complessità della narrazione vi è solo il fascino assoluto che emerge nello stile di Faulkner. Egli è crudo, spietato e diretto nel raccontare la storia dei Bundren: una famiglia come tante, composta da ragazzi rozzi, poveri e miserabili. Gente superba, che non sa amare, che fatica ad esternare i sentimenti e che sovente convive nello  squallore e nella crudeltà. Faulkner riesce con una maestria incredibile a far sospendere clamorosamente il giudizio su questi reietti. La forza evocativa alla quale si rifà è talmente maestosa, impregnata da continui richiami religiosi e simbolici, che riesce nel difficile compito di mitigare l’orgoglio e la boria di questi individui. Il risultato è sorprendente. Si tratta di una lettura certamente complessa, che alla carezza spesso predilige lo schiaffo, ma che offre un validissimo materiale letterario su cui formarsi.