Bertolt Brecht. Una doppia rivoluzione tra solitudini e speranze

Bertolt Brecht (1898 – 1956) è noto soprattutto come drammaturgo. Può essere considerato uno dei più grandi drammaturghi del Novecento, autore di opere che hanno avuto un grande successo come per esempio Tamburi nella notte e L’opera da tre soldi. Ma Brecht è stato anche un grande poeta, autore di numerose poesie, tra le più appassionanti della lirica tedesca novecentesca. L’opera poetica di Brecht in Italia è meno conosciuta rispetto all’opera del Brecht drammaturgo. Questo aspetto non è semplice da analizzare anche perché stiamo parlando di una poesia che presenta una grande originalità.

Brecht è stato un eccellente testimone del suo tempo; ha sposato il marxismo ma al tempo stesso ha avuto il coraggio di criticarlo in certi suoi aspetti e di metterlo continuamente in discussione. Il dato di fatto è questo: il Brecht poeta è stato puntualmente oscurato dal Brecht drammaturgo. Non dimentichiamo che Brecht è stato l’ideatore di uno stile di insegnamento della recitazione opposto al metodo Stanislavskij[1], divenuto famoso e ampiamente utilizzato. Anche Brecht, a suo modo, con la poesia ha istituito un mondo. Come Georg Trakl del resto. Questo nostro contributo vuole porre l’accento sulla sua produzione poetica, evidenziandone alcuni aspetti essenziali, soprattutto in una precisa fase della sua vita, quella dell’esilio, che a livello poetico culmina con le Poesie di Svendborg; liriche composte in un piccolo centro in Danimarca dove il poeta soggiornò all’indomani dell’interruzione da parte della polizia nazista di una sua rappresentazione teatrale nel 1933.

“Sempre mi è apparso erroneo il nome che ci hanno dato: emigranti.

Questo significa: espatriati.

Ma noi non siamo espatriati volontariamente

In un altro paese scegliendo.

E nemmeno siamo espatriati

in un paese per restarvi, possibilmente per sempre.

Siamo fuggiti, invece. Espulsi noi siamo, banditi.

E non casa, ma esilio dev’essere il paese che ci ha accolti”

La poetica di Brecht è diretta, decisa, immediata. È una poesia figlia di una confessione: quella di un intellettuale che vive in un’epoca di atroci crudeltà e nefandezze. Sebbene venga precluso ogni accesso a mondi fantastici e misteriosi, questa poetica contiene un fascino e una bellezza a cui non ci si può sottrarre. L’assenza delle rima non impedisce alle liriche di assumere un ritmica a tratti ottimamente calibrata. Il testo che proponiamo per avvicinarsi al poeta e drammaturgo nativo di Augusta, è una selezione di poesie edita da Einaudi, a cura di Guido Davico Bonino, con testo tedesco a fronte. Il Brecht che trapela da questa selezione di liriche è un Brecht più personale che si confronta con le grandi tematiche poetiche del Novecento: la natura, l’amore, lo scorrere del tempo. Un Brecht più intimo, più profondo se vogliamo.

Brecht a Svendborg. Nella solitudine, dove si forgia la poesia

Luogo d’asilo

Sopra il tetto c’è un remo. Un vento moderato

non strapperà la paglia.

In corte hanno piantato

pali, per l’altalena dei ragazzi.

Vedo la posta due volte venire

qui, dove benvenute sarebbero le lettere.

Passano giù per il Sund, i traghetti.

La casa ha quattro porte, per fuggire.

Quando Brecht è costretto a lasciare la Germania all’indomani dell’incendio del Reichstag il 27 febbraio del 1933, i nazisti avevano già censurato le sue opere teatrali ed erano arrivati, come accennato, a interrompere le rappresentazioni in programma. Brecht a quel punto non ha scelta e decide di fuggire. La fuga di Brecht è alquanto rocambolesca. Trova alloggio in una modesta abitazione, a Svendborg. Si tratta di una semplice casa contadina nella campagna danese, immersa in un paesaggio brullo e freddo. Il clima rigido, il luogo isolato e le ultime assurde vicende spingono Brecht a mettere mano alla sua produzione poetica, in un contesto di grande solitudine e riflessione.

In Danimarca soggiornerà dal 1933 al 1939. Dalla raccolta Poesie di Svendborg  emerge chiaramente la sua condizione di esiliato, di rifugiato di  scrittore-politico in fuga. In una lettera scrive Brecht: “Sono contrario alla pretesa di mettere ordine in un porcile […] [e] non abbastanza preparato per poter continuare a vivere da uomo in mezzo a tutto quel sudiciume. La chiami pure debolezza, ma io non sono così umano da poter restare uomo alla vista di tanta disumanità”.

Quello che amo

mi ha detto

che ha bisogno di me.

per questo

ho cura di me stesso

guardo dove cammino e

temo che ogni goccia di pioggia

mi possa uccidere

Una rivoluzione teatrale. Una rivoluzione poetica

Le Poesie di Svendborg, La raccolta Steffin, Le poesie 1947-1956 sono tutte di grande importanza e rappresentano tappe cruciali nella formazione di Brecht. Nell’esilio, pur patendo la condizione di una vita precaria, difficile, incerta, cacciato via dalla sua terra e messo al bando dal regime nazista, il poeta ha avuto il coraggio di affermare la sua netta avversione al nazismo, dando vita a un grande messaggio di speranza. Dopo l’esilio quella solitudine sembra non potersi più dissolvere. La poesia che emerge dopo la guerra, sebbene rinvigorita da una rinnovata speranza, ha delle note malinconiche e un’essenzialità così marcata da apparire altrettanto profonda e originale.

La rivoluzione di Brecht che nel teatro è stata eclatante, trova un suo riscontro anche nella poesia. La rivoluzione di cui parliamo, sappiamo che nel teatro è stata quella di voler trasformare il comportamento del pubblico. Voleva renderlo critico e cosciente; uno spettatore che non si immedesimasse col protagonista. Secondo Brecht, il popolo tedesco si era immedesimato troppo nella folle ideologia di Hitler ed era quasi ossessionato da voler sentire le stesse emozioni e gli stessi sentimenti di potenza del Fuhrer.

Brecht incita alla libertà. Desiderava che il pubblico del teatro fosse libero e razionale, ma soprattutto critico, senza che esso si identificasse negli altri attori. Un pubblico critico e riflessivo, attento osservatore di ciò che accadeva nel palcoscenico. Così la poesia. Essa aveva il chiaro intento di voler far riflettere sulla realtà che si stava dispiegando in quegli anni. L’eco della sublime voce poetica di Brecht giunge fino a noi, ancora oggi. In questi mesi e in questi giorni tristi, avari di poesia.

Anche noi come lui, esuli, ma cosa forse peggiore, esuli nella nostra terra. Incompresi, soli, pensierosi. Alla luce degli scenari che questo squarcio di secolo ci sta offrendo, le cui tinte fosche non sembrano diradarsi nemmeno se lanciamo lo sguardo oltre l’orizzonte, ci troviamo quasi indifesi, con le vesti troppo leggere per affrontare la gelida notte e pensieri troppo distanti da noi stessi. Cosa potrà mai salvarci se non la poesia?

Su un ramo secco e arido

è fiorito un fiore

stanotte nel timore

che gli sfuggisse maggio

——————————-

Da tempo

non avevo più paura della morte. Poiché

nulla può più mancarmi, posto

che io mi manchi

——————————-

Io che nulla amo più

dello scontento delle cose mutabili,

così nulla odio più del profondo scontento

per le cose che non possono cambiare


[1] Il metodo Stanislavskij pone alle basi dell’arte dell’attore il concetto dell’immedesimazione, mentre il metodo opposto, quello teorizzato e ideato da Brecht, basa la tecnica recitativa sulle capacità di straniamento. Il teatro di Brecht è meno rivolto all’insegnamento dell’ideologia politica presente. È stato definito “teatro epico”, dove lo spettatore è decisamente più partecipe, diventando in pratica un soggetto attivo. L’attore, prendendo le distanze dal personaggio, con la tecnica dello straniamento di Brecht, limitandosi a proporne i tratti e gli atteggiamenti, avvia un colloquio attivo con gli spettatori, portandoli dopo alcune fasi a ragionare sui temi proposti.