L’uomo ordinario e l’esercito delle teste reclinate

L’attuale società è contraddistinta per lo più da una mentalità ordinaria. Il termine ordinario che rimanda a un qualcosa o qualcuno contenuto all’interno della norma e della regolarità, può anche riferirsi a ciò che è comune, usuale, abituale, consueto e infine banale. Quando si ha a che fare con un popolo sbilanciato verso l’ordinario, dominato dall’uomo ordinario, chi esce fuori dagli schemi, chi si sente diverso e combatte per mantenere una propria originalità e preservare la propria identità, rischia di essere sconveniente e deprecabile. Chi stabilisce l’ordinario e lo sconveniente è la massa che trita e sbriciola tutto ciò che è diverso. Gustave Le Bon oggi è attuale più che mai.

L’uomo ordinario, che può essere identificato come l’uomo della massa è l’esatto prodotto della società in cui viviamo. Se ne infischia degli sforzi operati dalla minoranza combattiva e lucida, che aveva e che ha a cuore le sorti umane, non presta la minima riconoscenza  a chi ha lottato e sacrificato se stesso per ottenere diritti sacrosanti, nel tentativo di migliorare le condizioni sociali ed economiche di tutti quanti e non avverte alcun obbligo verso la società a cui appartiene. Tutto gli è dovuto. Guarda alla storia e alle tradizioni con una superficialità agghiacciante, rigetta norme, deride maestri, disprezza la letteratura e la filosofia, calunnia modelli ed esempi, vive senza radici e senza nessun senso di spiritualità. 

L’uomo massa predilige l’azione. Egli agisce con violenza lessicale, tradotta in frasi lapidarie e minacciose, consigliato dalla sua inseparabile amica tv, ben adagiato sull’ultimo confortevole modello di poltrona reclinabile, immerso in lussi e comodità, da dove sentenzia e inveisce contro chiunque ambisca a vivere la sua vita fuori dall’ordinario. Peccato mortale essere sconvenienti nell’era della tecnica. Egli è competente (se lo è), in uno solo campo, quello che attiene di norma al suo lavoro, ma tende a voler dominare anche e soprattutto fuori dalla sua specialità. Si trova a suo agio nell’era della globalizzazione, che ha reso comuni anche i sentimenti e le emozioni che un tempo erano uniche ed esclusive e che vedevamo e sentivamo con mano.

La rivoluzione c’è stata eccome, ma le rivoluzioni erano diverse in passato. Sarei tentato di parlare più di involuzione. Oggi sono diventate questo le rivoluzioni. Mah. Non lamentiamoci, dopotutto l’epoca dei social ha i suoi lati positivi. Ah i social! L’era del mondo interconnesso, della comunicazione interattiva, del dominio dello schermo. Tv, telefono, tablet o pc, non importa. Ciò che conta è essere connessi h 24. La realtà si è trasferita lì, impigliata fra reti e circuiti; una realtà che ci fa credere di stare lì a parlare col mondo, che ci lascia intendere di essere ascoltati da qualcuno quando invece stiamo parlando solo con noi stessi.

Oggi a parlare e a straparlare è proprio chi non ha assolutamente nulla da dire, ma non fa altro che mettere in pasto ogni giorno la propria noia e la propria inutilità ai voraci degustatori social di pochezze. Un tempo, certe futilità morivano lì, tra il chiacchiericcio confuso degli astanti e la proverbiale noncuranza della comitiva, quando poi arrivava il momento di poter avanzare commenti e tesi strampalate, le castronerie esternate più o meno seriamente, figlie del clima, quello reale, del contesto in cui ci si trovava, culminavano in una risata o in una rissa. Tutto questo quando ancora ci si poteva guardare per davvero negli occhi, senza gli osannati filtri tecnologici.

In questo occidente benestante, sazio, saccente e borioso fioccano i commenti non richiesti, i cibi consigliati e quelli da evitare a tutti costi, i luoghi da vedere assolutamente, le critiche a quell’hotel o a quel ristorante, gli attacchi a chi ha scritto questo o difeso quell’altro, i resoconti di giornate interminabili in ufficio, vacanze noiose, di gite rovinate dal caldo, dal freddo, dalla pioggia, dalla grandine, dall’umidità, dalla nebbia, dal cane, dalla suocera, dal cugino, dal conoscente dell’amico, dall’ex dell’amica, dal pronipote di quarto grado che ti manda un messaggio una volta ogni due anni, sbagliando anche la data del tuo compleanno. Insomma una valanga di inutilità proposte e riproposte ogni giorno, buttate lì ad intasare la rete.

La vita reale, quella vera, nel frattempo, scorre lontana dagli schermi e dai monitor. La forma che i social hanno preso con gli anni è diventata pura sostanza. Sostanza illusoria però. Chi è convinto di comunicare qualcosa ai finti interlocutori sta solo rinnovando la sua proverbiale relazione quotidiana sulla sua infruttuosa solitudine, ritagliandosi spazi inesistenti, desideroso di essere ascoltato da qualcuno. Ma a furia di cercare disperatamente un pubblico disposto di far finta di ascoltare, quotidianamente dimentica di ascoltare se stesso.

Passeggiando in città osservo solo teste reclinate, un tempo immerse nella lettura di qualche libro, oggi assorbite e disperse in un telefono, coi volti illuminati dai bagliori di uno schermo che li ha in pugno. I lettori sono scomparsi. Il paesaggio odierno è uniforme, identico in ogni sua parte. Nei locali, nei ristoranti, in attesa del tram, alla stazione, fermi al semaforo, l’esercito delle teste reclinate si espande a perdita d’occhio, invade ogni dove. Se non sono alle prese con gli occhi, allora lasciano spazio alla voce e all’udito. Camminano qua e là con l’auricolare, parlando ad alta voce da soli, come schizofrenici, paranoici, incuranti di ciò che sta loro intorno.

Dov’è l’introspezione tanto cara ai romanzieri di un tempo?

Il lettore mi perdonerà se mi limito a parlare, per ora, solo di questo primo tipo di uomo ordinario e di esercito di teste reclinate, perché ce ne sarebbe anche un secondo, ma a questo mi dedicherò in una delle prossime puntate. Io non lo so se quest’immaterialità che ci ha sovrastato è la sola causa delle deriva sociale in cui siamo caduti e che qualche mente ancora lucida, disperatamente, si affretta a farci notare.

Questo viaggio, se ancora si può chiamare così, è un viaggio in un mondo che non esiste, intrapreso con in mano un navigatore impazzito, con un bagaglio inutile e occhi finti da sciocchi contemplatori di paesaggi fasulli. 

Bauman, una volta, in un’intervista, lucidamente descriveva tutto ciò.
Le comunità virtuali, dove l’uomo ordinario si trova a suo agio, hanno sostituto quelle naturali. Questo è un dato di fatto. Esse creano solo l’illusione di intimità e una finzione di comunità. Tanto basta. E poco importa se intimità e comunità sono tutta un’altra cosa. Oggi si mette sullo stesso piano una conversazione reale con uno scambio in chat, o con una videochiamata. Si pretende davvero di dare sostanza alle persone così.

L’uomo ordinario o l’uomo massa, o l’uomo dalla testa reclinata (soprattutto se giovane), quando la vita gli sottopone, quasi quotidianamente per fortuna, un salvifico momento di solitudine, in auto, per strada, al semaforo, alla fermata del tram, in una qualsiasi infinita attesa, davanti allo sportello di turno, invece di raccogliere i pensieri, di ritrovarsi un attimo con la sua intimità, di ascoltare per un istante la sua anima, controlla se ci sono messaggi sul cellulare, verifica se l’amico/a ha scritto, ha commentato, ha risposto, se il nuovo iscritto ha messo un “mi piace” che può far svoltare la giornata. Soprattutto giovani ma anche non più giovani in balia dello schermo che illumina loro il viso, in crisi di astinenza, in attesa della proverbiale dose di “falsa attenzione”.

Lo si fa per avere qualche brandello di evidenza che possa dimostrare che qualcuno, da qualche parte del pianeta, ha bisogno di loro, per un attimo, anche solo per un istante, in nome della rete che ci ha tutti (s)connessi e la partita l’abbiamo persa noi, a tavolino, senza neanche giocarla, perché non siamo più in grado neanche di dare senso e valore alla nostra solitudine.